La dura realtà della vita è pienamente rappresentata in questo romanzo;non sono molte le vicende che accadono al protagonista eper di più poco avvincenti, ma questo non è importante: il vero romanzo è nella descrizione più che reale che l'autore dà dei fatti accaduti, dei sentimenti provati, della sofferenza del vivere e del morire.Ma ora veniamo all'opera.
Il 1889 è l’anno del secondo grande romanzo, “ Mastro don Gesualdo”, apparso dapprima in undici puntate sulla rivista “Nuova Antologia” (1887-1888), poi pubblicato in volume unico con parti rielaborate. Il nome del protagonista, preceduto dai titoli che condensano efficacemente la storia di un salto di classe (da mastro, cioè muratore, a don, cioè signore, nobile), era già nella mente dello scrittore quando, nella prefazione a “I Malavoglia”, lo citava come colui che avrebbe incarnato, dopo la lotta per i bisogni materiali, la seconda tappa del cammino inevitabilmente fallimentare di “codesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato”. Il Verga si propose di tracciare la storia di un unico personaggio, di mostrarne l’esistenza dall’infanzia alla morte, tutto all’opposto della dimensione corale de “I Malavoglia”. Gesualdo è un borghese, che da umilissime condizioni di partenza, ha fatto propria la mentalità individualistica degli imprenditori e ha raggiunto così il vertice del successo economico; ma lo è in una società, in cui le trasformazioni avvengono con ritmo lento e contraddittorio rispetto alle aree già assimilate alla rivoluzione industriale: la Sicilia del primo Ottocento. Mastro-don Gesualdo emerge dal romanzo come un “titanico eroe solitario”, che con la sua straordinaria energia e volontà, mai dome nell’incessante lavoro, nelle continue difficoltà nelle inquietudini, rappresenta l’emblema dell’uomo che “si fa da sé”, il quale ha un culto per la roba privo di grettezza e ricco di un alto valore etico.Egli si oppone senza sosta al meschino mondo provinciale, tutto teso egoisticamente a fare i propri interessi, solo per dimostrare di essere potente. La vicenda umana di Gesualdo si colloca in un momento storico ben definito e vede il crollo sia fisico che morale della nobiltà siciliana; quella stessa nobiltà che sullo scrittore giovane esercitava un torbido fascino, è vista adesso in tutta la sua degenerazione passività, rese dal Verga stesso con una vasta gamma di toni, dal patetico all’ironico,fino al grottesco. Con la forza dei suoi denari e del suo cervello fino, egli si impone su tutto etutti ; però è l’unico che, nonostante la tristezza di una vita assillata dal pensiero della roba, angosciata da problemi e disgrazie riscaldi il cuore del lettore col suo attivismo, col suo orgoglio , che non fa trapelare le sue pene. Quest’uomo che conosce il pathos del fare la roba,alla quale ha consacrato la sua intera esistenza, con in corpo l’amaro dell’odio e dell’ingratitudine altrui, nutre insieme a tutto ciò soprattutto un grande bisogno di affetto, mai soddisfatto: infatti tale personaggio, anche se ha raggiunto quel vertice della scala sociale tanto desiderato, ben presto si renderà conto sul piano degli affetti e dei rapporti umani quanto doloroso e profondo è l’abisso di solitudine e incomunicabilità che il successo stesso porta con sé. A nulla serve la sua generosità verso i parenti ingordi, avidi, ingrati ed un gran fallimento sarà pure il matrimonio con la nobildonna Bianca Trao : “un affare sbagliato questo matrimonio”, in tutti i sensi ; gli è costato, soprattutto, la rinuncia all’amore di Diodata - fedele che conosce al pari del padrone gli stenti, le fatiche di una vita i duro lavoro – a cui deve i pochi momenti di tenerezza della sua vita. Queste sofferenze solo per l’acquisizione del sospirato titolo nobiliare di don, coronamento della “vittoriosa” scalata sociale. Incomprensione e incomunicabilità separano il mastro divenuto don , anche dalla figliastra Isabella (frutto di un adulterio della moglie), unica speranza di affetto per lui che la adora : ma lei non ricambia il sentimento “paterno”, perché “ della medesima razza aristocratica e distante della madre”. Difatti gli altri nobili non lo accettano come pari, neppure quelli più spiantati, a causa dei suoi rozzi e semplici costumi, e per il suo sistema di valori che antepone la ‘moralità’ dell’utile alla nobiltà dei natali. Dall’altra parte lo disprezza anche la folla degli ‘umili’ per il suo arrivismo e utilitarismo, teso solo al raggiungimento del massimo, e visto come offesa e sfruttamento della povertà. Lo stesso struggimento per al roba che ha costretto Gesualdo a sacrificare l’amore per Diodata lo spingerà ad imporre alla figlia, innamorata del cugino , un matrimonio di convenienza con un duca dal patrimonio in dissesto: sarà l’infelicità per Isabella, insieme alla decadenza fisica di Gesualdo, e ad un ingente disastro finanziario a sancire l’inutilità di tutta una vita spesa al guadagno della roba. Ha così inizio la fase discendente di Mastro-don Gesualdo, che culminerà con la morte dello stesso nel palazzo signorile del genero : qui, lontano dal suo mondo, solo, fra l’agghiacciante indifferenza, mista a disprezzo, della servitù verso quest’uomo dalle “mani rose dalla calcina”, con in più il cruccio dello sperpero del lavoro di tutta una vita, si spegne lentamente con la convinzione che la roba sia ancora la “sola creatura viva, feconda”. Fanno da contrappunto a tanto denso e crudo realismo, i sobri abbandoni all’idillio, brevi pause , a volte appesantiti da un linguaggio macchinoso e intrecciato ad espressioni del vivere quotidiano, e da uno stile organico ma molto pesante.
La roba
Verga descrive il passaggio dal feudalesimo al capitalismo nelle campagne usando la psicologia del carattere e la fenomenologia del comportamento individuale, ma non riesce a dare una spiegazione sociale convincente di tale transizione.
E' infatti inverosimile credere che un bracciante sia potuto diventare capitalista agrario attraverso un iter di tipo rurale.
E' vero che Verga sottolinea atteggiamenti furbeschi come l'inganno, la menzogna, l'illegalità..., ma non è con questi atteggiamenti che un bracciante si trasforma in capitalista. Il capitalista agrario nasce proprio cacciando i contadini dalla terra, i quali si trasformano in braccianti.
Un contadino cacciato dalla terra, normalmente, in città, diventava operaio, oppure si poneva in qualche modo contro le istituzioni dominanti; poteva anche diventare borghese, ma solo in condizioni molto particolari (attraverso la criminalità mafiosa o usando personali abilità commerciali).
In ogni caso un barone non avrebbe mai permesso a un proprio servo della gleba di arricchirsi in quanto servo. Il servo doveva o andarsene o farsi cacciare o ribellarsi. Il processo non era graduale ma traumatico.
Il racconto, a causa del pessimismo radicale del Verga, è finito in maniera negativa, drammatica, ma avrebbe potuto finire in maniera costruttiva o quanto meno problematica.
Il protagonista cioè avrebbe potuto concedere un prestito a tasso agevolato a una serie di persone, scelte tra i suoi operai, che avessero mostrato capacità imprenditoriali; oppure, visto che non aveva eredi, avrebbe potuto mettere il suo patrimonio a disposizione dei lavoratori, affinché lo valorizzassero.